Inutilizzabilità dell'esame testimoniale nel procedimento penale



Ai fini della presente trattazione occorre anzitutto affrontare la questione dell’escussione delle prove in dibattimento, delineandone sinteticamente i tratti fondamentali per poi  focalizzare l’attenzione nello specifico sull’esame testimoniale.
L’art. 496 c.p.p. prevede, anzitutto, l’ordine di assunzione delle prove disponendo che “L’istruzione dibattimentale inizia con l’assunzione delle prove richieste dal pubblico ministero e prosegue con l’assunzione di quelle richieste dalle parti, nell’ordine previsto dall’art. 493 comma 2. “.
Le prove vengono raggruppate e distinte in funzione di coloro che hanno chiesto l’assunzione; la distinzione assume rilevanza in considerazione del diverso ruolo che assumono le parti, consentendo di tenere separato l’esame diretto, condotto dalla parte che ha chiesto la citazione dell’interrogato, dal controesame, condotto dalle altre parti, secondo l’ordine sopra esposto.
Con particolare riferimento all’esame incrociato dei testimoni, ( le cui regole risultano utilizzabili per l’esame di ogni altro soggetto ), l’art. 498 c.p.p. dispone “ le domande sono rivolte direttamente dal pubblico ministero o dal difensore che ha chiesto l’esame del testimone “ . Successivamente, le altre parti effettueranno il controesame, al termine del quale chi ha chiesto l’esame può proporre altre domande. Si ha una specifica regolamentazione delle modalità dell’esame individuando espressamente i criteri di ammissione e di esclusione.
L’art. 499 c.p.p.  prevede che l’esame si svolga mediante domande su fatti specifici. Le domande debbono essere pertinenti. L’ambito della testimonianza risulta definito dall’art. 194 c.p.p. il quale richiede che l’esame avvenga sui fatti che costituiscono oggetto di prova. La prescrizione si chiarisce grazie all’art. 187 c.p.p. che identifica quale oggetto di prova i fatti che si riferiscono all’imputazione ( così come formulata dal pubblico ministero e poi illustrata nella esposizione introduttiva). Spetta al presidente assicurare la pertinenza delle domande e, a tal fine, il medesimo ha il potere di escluderle. Deve inoltre essere garantita la genuinità delle risposte, la lealtà dell’esame e la correttezza delle contestazioni.
Domande espressamente vietate sono quelle che possono nuocere alla sincerità delle risposte ( art. 499 comma 2° ). La “sincerità” non coincide con la “genuinità” delle risposte stesse. Il primo si riferisce, infatti, alla corrispondenza tra la dichiarazione e i fatti percepiti; il secondo tutela l’intenzione del testimone, il quale non deve essere condizionato o fuorviato nella sua descrizione.
Fra le domande suscettibili di influenzare il testimone ruolo particolare viene riservato alle domande suggestive ( tendenti cioè a suggerire le risposte ). L’art. 499 comma 3 c.p.p. dispone che ” Nell’esame condotto dalla parte che ha chiesto la citazione del testimone e da quella che ha un interesse comune sono vietate le domande che tendono a suggerire le risposte “.   Il controesame, al contrario, può essere condotto in maniera più libera essendo finalizzato essenzialmente a saggiare l’attendibilità del testimone. La differenza costituisce quindi un aspetto di non poco momento e consente di perseguire la veridicità della testimonianza anche mediante domande che nell’esame diretto presenterebbero, ragionevolmente, il rischio di nuocere a tale valore. Sarà possibile l’utilizzo della facoltà di estendere l’interrogatorio ai sensi dell’art. 194 comma 2° alle circostanze il cui accertamento è necessario per valutare la credibilità del testimone.
Resta come limite invalicabile il rispetto della persona la cui tutela deve essere curata dal Presidente.  
Una volta illustrati i tratti dell’esame testimoniale occorre ora esaminare le conseguenze relative al mancato rispetto delle regole predette.
Il codice del 1930 non conosceva espresse regole ad hoc di esclusione della prova e riconduceva la sanzione, in termini di nullità, all’atto del procedimento, a prescindere dal fatto che tale atto fosse inserito in quella particolare sequenza che è il procedimento probatorio.
Se da un lato, quindi, la semplificazione era evidente attesa l’esistenza di un solo regime sanzionatorio, dall’altro, l’applicazione delle regole proprie della nullità processuale poteva provocare la sanatoria del vizio medesimo, posto che la nullità del singolo atto, sebbene concernente un vizio piuttosto grave del procedimento probatorio, diventava in concreto, una nullità relativa della sentenza di primo grado, di non agevole rilevabilità nelle successive scansioni processuali.
Dottrina e giurisprudenza hanno sottolineato il fatto di come il procedimento probatorio abbia delle prerogative particolari che non sono cumulabili con quelle degli altri atti del procedimento penale poiché, nell’attività di formazione della prova sono, inevitabilmente, coinvolti valori di rango costituzionale che, come tali, rimangono insufficientemente tutelati dal regime sanzionatorio delineato dal codice di rito previgente.
La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità con il dettato costituzionale di talune norme del codice di rito riguardanti il procedimento probatorio, incomincia ad avvertire “il dovere di mettere nella dovuta evidenza il principio secondo il quale attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per se a giustificazione ed a fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito” (Corte cost., sent. 6 aprile 1973, n. 34).
Il legislatore del 1988 ha coniato il nuovo regime della inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite, prevedendo una disposizione normativa – l’art. 191 c.p.p. - specifica che segue in senso logico-sistematico, l’articolo che contiene l’enunciazione del diritto alla prova (art. 190 c.p.p.).
L’art. 191 c.p.p. è una disposizione di carattere generale ed enuncia che le prove acquisite “in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate”. Al comma 2 dello stesso articolo che “l’inutilizzabilità è rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento”.
L’istituto al quale si ricorre, quindi, attualmente, costituisce la reazione del nuovo codice di procedura penale all’introduzione nel procedimento di prove vietate o invalidamente assunte.
L’art. 606, lett. c) c.p.p. prevede, tra i motivi di ricorso per cassazione “l’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, di inutilizzabilità, di inammissibilità o di decadenza”.
L’inutilizzabilità si collega, quindi, al principio di legalità della prova, posto alla base del nuovo codice, col quale si indica che l’esercizio del potere conoscitivo del giudice è sottoposto ai limiti fissati dalla legge. L’inutilizzabilità presuppone che le prove scaturiscano dal contraddittorio delle parti davanti all’organo incaricato di decidere; e che siano previste regole legali probatorie in grado di selezionare i dati utilizzabili, determinando in anticipo i modi in cui il giudice deve conoscere il fatto.
La struttura dell’inutilizzabilità è stata delineata in modo da impedire espressamente l’uso delle prove vietate, rendendone infruttuoso il risultato, senza passare attraverso la mediazione della nullità della sentenza.
Occorre ora individuare l’esatta portata dei divieti, previsti dalla legge, in base ai quali una prova può essere ritenuta inutilizzabile ai fini della decisione.
Sono certamente inutilizzabili le prove acquisite in contrasto ad espressi divieti di legge.
In tal senso si può ricordare la testimonianza estorta tramite la minaccia delle armi o attraverso la somministrazione di droghe o sotto ipnosi violando, in tal modo, il divieto stabilito dall'art. 189 c.p.p. che impedisce l'uso di metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di determinazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti. In tali ipotesi ricorre la sanzione prevista dall'art. 191 c.p.p.
Parte della dottrina ritiene sussistano anche ipotesi di divieti indiretti; dall'art. 238 c.p.p. si ricava, ad esempio, che sono tassative le ipotesi di acquisizione di verbali di prova di altro procedimento, sicché ogni indebita estensione sarebbe comunque colpita da inutilizzabilità. La giurisprudenza segue tuttavia una linea di minor rigore, ritenendo che solo la violazione di divieti espressi conduce alla inutilizzabilità (Cass., I, sent. 1357 del 4-2-94).
Le Sezioni Unite della Cassazione (sent. 24 settembre 1998) hanno poi ampliato la nozione di inutilizzabilità probatoria assumendo che a tale sanzione andrebbero incontro non solo le prove oggettivamente vietate dalla legge, ma anche quelle formate o acquisite in violazione di diritti soggettivi costituzionalmente garantiti.
Distinta dall'inutilizzabilità c.d. «patologica» (conseguente all'intrinseca illegittimità della prova) è quella c.d. «funzionale» (conseguenza della suddivisione del procedimento penale in fase investigativa e fase giurisdizionale, da cui deriva che un atto collocato nella prima, salvo talune ipotesi, esaurisce la sua funzione probatoria in essa, dunque è inutilizzabile nella seconda) e che la sanzione dell'inutilizzabilità riguarda esclusivamente l'atto inficiato, mentre non si estende agli atti che da esso dipendono.
Diversa questione è quella relativa all’assunzione della prova con modalità diverse da quelle previste dalla legge.
Alcuni autori ritengono che l’art. 191 c.p.p. lasci intendere che l’inutilizzabilità riguarda non solo l’an, ma anche il quomodo delle prove, cioè sia le prove inammissibili, sia quelle ammissibili, ma assunte con modalità diverse da quelle prescritte. Se ne troverebbe conferma nell’art. 526 c.p.p., che inibisce l’uso a fini decisori di prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento. L’art. 526 c.p.p. non detta una norma speciale rispetto all’art. 191 c.p.p., ma contiene un’applicazione specifica dell’art. 191 c.p.p. nel dibattimento: si rende esplicita, cioè, una inutilizzabilità che si sarebbe anche potuta ricavare come corollario del metodo probatorio previsto per la fase dibattimentale.
Al contrario, è’ orientamento consolidato in giurisprudenza quello per il quale, nelle ipotesi di assunzione con modalità diverse da quelle previste dalla legge, non ricorrerebbe una causa di inutilizzabilità: non incorrendo nella violazione di un divieto di legge, la prova assunta a seguito di procedimento irrituale potrebbe dar luogo ad una irregolarità ( Cass., sez. V, 17 luglio 2008, n. 38271; Cass., sez. I, 6 maggio 2008, n. 32851; Cass., sez. II, 5 febbraio 2008, n. 7922) ovvero, ricorrendone i presupposti, ad una nullità, sempre che tale sanzione sia prevista con riferimento alla singola violazione, in base al principio di tassatività delle nullità sancito dall'art. 177 c.p.p.
Recentemente, la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con sentenza 18 gennaio 2012  n. 7373 ha avuto modo di intervenire sulla materia prendendo in esame due aspetti particolarmente significativi.
In primo luogo il Collegio ha preso in considerazione la problematica relativa alle modalità con le quali si deve procedere all’esame dei testimoni in genere e dei minori in particolare dando conto dei due diversi orientamenti formatisi in proposito. Secondo una prima interpretazione che trova riscontro nel dato testuale dell’art. 499 c.p.p. “ il divieto di porre al testimone domande suggestive non opera né per il giudice né per l’ausiliario di cui il giudice si avvalga nella conduzione dell’esame testimoniale del minorenne ( Cass.  Sez. III penale, sentenza 28/10/2008 n. 9157 – 20/05/2008 n. 27067 ).
Altro orientamento ha invece affermato che “ il giudice che procede all’esame diretto del testimone minorenne non può formulare domande suggestive “ ( Cass. Sez. III penale, sent. 11/05/2011 n. 25712 ).
Nella sent. 7373/2012 la Suprema Corte fa proprio il secondo orientamento sottolineando il fatto di come “ detto divieto deve applicarsi comunque a tutti i soggetti che intervengono nell’esame testimoniale, operando ai sensi dell’art. 499 c.p.p. comma 2, per tutti il divieto di porre domande che possono nuocere ala sincerità della risposta e dovendo anche dal giudice o dal suo ausiliare essere assicurata in ogni caso la genuinità delle risposte ai sensi del medesimo articolo, comma 6”   
Altro aspetto significativo che viene preso in considerazione nella sentenza in commento riguarda l’inutilizzabilità della prova nelle ipotesi in cui la stessa sia assunta con modalità diverse da quelle prescritte dalla legge.
In questo caso la Corte non si discosta dall’orientamento consolidato così come ut supra illustrato, secondo il quale l’inosservanza delle regole da osservarsi nell’esame dei testimoni non rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 191 c.p.p. Ove si violino le regole predette la prova diviene, al massimo “non genuina e poco attendibile” e, come tale, censurabile nella fase della valutazione della prova (e, nel giudizio per Cassazione, come vizio della motivazione). Non determina, invece, l’inutilizzabilità della prova poiché “non si tratta di prove assunte in violazione di divieti posti dalla legge, bensì di prove assunte con modalità diverse da quelle prescritte”.

Stefano Bartoloni

0 commenti:

Posta un commento