Il provvedimento amministrativo è l’atto tipico con il quale la Pubblica amministrazione realizza, tramite esercizio di un potere discrezionale, la cura dell’interesse pubblico assegnatole dalla legge. Questa sommaria definizione del provvedimento amministrativo consente, tuttavia, di individuare alcuni tratti caratterizzanti utili ai fini della corretta individuazione della natura giuridica.
Muovendo dal dato di fondo, quello cioè in ragione del quale alla Pubblica amministrazione spetta il compito fondamentale di provvedere alla cura dell’interesse pubblico che alla stessa viene specificamente assegnato dalla legge, in tale ottica si individuano molteplici strumenti attraverso i quali si persegue l’obiettivo predetto.
Senza trascurare l’importanza di altre forme di intervento ( attività materiali, atti posti in essere iure privatorum ), l’Amministrazione opera prevalentemente attraverso atti amministrativi qualificabili, secondo parte della dottrina, come manifestazioni di volontà, di conoscenza, di giudizio o di natura mista aventi rilevanza esterna e posti in essere nell’esercizio di pubbliche funzioni.
Nell’ambito di tale categoria si inseriscono i “provvedimenti” da intendersi come atti amministrativi posti in essere attraverso l’esercizio di un potere discrezionale e destinati ad incidere in maniera autoritativa e costitutiva a seconda dei casi con effetti favorevoli ( provvedimenti ampliativi ) o con effetti limitativi ( provvedimenti restrittivi ).
Ciò che vale a caratterizzare anzitutto il “provvedimento amministrativo” è la natura discrezionale del potere esercitato dalla Pubblica Amministrazione. Si è soliti utilizzare il concetto di “discrezionalità amministrativa” per distinguerla dalla “discrezionalità tecnica” in ragione delle diverse valutazioni che la stessa amministrazione opera ai fini dell’emanazione del provvedimento.
Parte della dottrina più risalente ha ritenuto che si ha discrezionalità amministrativa quando la norma attributiva del potere si è limitata ad individuare l’interesse pubblico da realizzare, lasciando alla scelta amministrativa il compito di selezionare, tra una pluralità di comportamenti ugualmente leciti ed ugualmente rispondenti alla causa giustificatrice del potere, quello più idoneo a soddisfare l’interesse pubblico.
Senza sottovalutare l’importanza dell’interesse pubblico alla cui cura l’attività amministrativa è indirizzata, più di recente la dottrina ha sottolineato l’importanza di tutti interessi coinvolti ( pubblici e privati ) attribuendo alla discrezionalità il compito di contemperare all’interno di un’attività procedimentalizzata ( procedimento amministrativo ) l’interesse pubblico primario con gli interessi privati secondari.
La ponderazione richiede una specifica correlazione di tutti gli elementi presi in considerazione in modo tale da realizzare la cura migliore dell’interesse pubblico assicurando, nello stesso tempo, il sacrificio minore degli altri interessi coinvolti.
Componente fondamentale quindi del provvedimento è la volontà da intendersi come volontà procedimentalizzata. L’atto scaturisce a conclusione di un procedimento espressamente disciplinato dalla legge ( Legge n. 241/90 ) ed assume forma e sostanza secondo gli schemi individuati in generale dalla legge ( nominatività e tipicità del provvedimento ).
In presenza di tutti gli elementi prescritti dalla legge il provvedimento si suole qualificare come perfetto. Alla perfezione segue l’efficacia intesa come idoneità astratta del provvedimento a produrre gli effetti per il perseguimento dei quali è stato adottato.
Ad essi si aggiunge quello che verosimilmente costituisce, sotto il profilo dell’operatività, il tratto maggiormente caratteristico del provvedimento, dato cioè dalla esecutività dello stesso in forza dell’imperatività, con possibilità per l’amministrazione di introdurre nella sfera giuridica altrui un regolamento di interessi senza necessità di ottenere il previo consenso o collaborazione del soggetto titolare della stessa. La costituzione di un nuovo rapporto prescinde da qualsivoglia manifestazione di volontà di altro soggetto diverso dall’amministrazione procedente alla quale la legge riserva, nell’ottica di cura e tutela dell’interesse pubblico, la possibilità di incidere autoritariamente nella sfera giudica altrui.
In ragione di queste caratteristiche alcuni Autori sottolineano la specificità ed individualità del provvedimento amministrativo qualificandolo come vera e propria norma particolare che vale a regolare il singolo rapporto giuridico instauratosi tra l’Amministrazione ed il cittadino destinatario dello stesso.
Come si evince, l’attività amministrativa trova il suo fondamento e le linee guida nella legge. In tal senso, si parla di legittimità del provvedimento amministrativo per sottolinearne l’assoluta conformità al precetto normativo.
Può tuttavia accedere che ci si trovi in presenza di un provvedimento adottato in difformità dal paradigma normativo; in tal caso la dottrina utilizza l’espressione invalidità da intendersi come categoria generale nell’ambito della quale si suole distinguere “nullità” ed “annullabilità” del provvedimento.
La nullità trova oggi espressa regolamentazione nell’art. 21-septies della legge 241/90 per il quale “ è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge” .
Tradizionalmente, stante la gravità delle situazioni rappresentate dalla norma, la nullità del provvedimento amministrativo costituisce la forma di invalidità numericamente meno frequente. Più ricorrenti sono invece le ipotesi di annullabilità, disciplinate dall’art. 21-octies della legge 241/90, il quale prevede al primo comma che “ è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza”.
La disciplina dell’annullabilità dell’atto amministrativo si rinviene originariamente nella c.d. legge Crispi ( legge 31 marzo 1889 n. 5992 ) istitutiva della IV sezione del Consiglio di Stato. Nel corso del tempo i tradizionali vizi in cui si sostanzia l’annullabilità del provvedimento amministrativo ( violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere ) sono stati oggetto di richiamo nell’art. 26 del Testo Unico delle leggi sul Consiglio di Stato ( r.d. 26/06/1924 n. 1054 ) e negli artt. 2 e 3 della legge 6/12/1971 n. 1034 istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali.
Nella prima formulazione della legge n. 241/90 precedentemente richiamata non si aveva alcun riferimento in tal senso. Solo con la novella realizzata tramite legge n. 15 del 2005 è stato introdotto l’art. 21-octies nel quale si richiama espressamente il concetto di annullabilità ed i tre vizi in ragione dei quali può essere disposta.
Nell’analizzare gli elementi che generano siffatta patologia, può essere opportuno muovere dalla “violazione di legge”, in quanto ritenuta generalmente categoria residuale; sussiste il vizio in esame qualora il provvedimento amministrativo differisce dal paradigma normativo di riferimento sotto il profilo formale, procedimentale, contenutistico, per difetto dei presupposti legali ovvero violazione dei criteri di economicità, efficacia e pubblicità.
Alcuni Autori distinguono due categorie:
a) mancata applicazione, in quanto l’Autorità amministrativa ha disapplicato una normativa vigente;
b) falsa applicazione, nelle ipotesi in cui l’Autorità amministrativa applica la norma con riferimento ad una ipotesi dalla stessa non contemplata.
Nel distinguere il vizio in oggetto dall’eccesso di potere ( così come verrà illustrato infra ), si sottolinea il fatto di come verosimilmente il discrimen vada individuato nel maggiore o minore grado di specificità della norma che si assume violata; nella violazione di legge si ha difformità dell’atto rispetto a disposizioni puntuali, nell’eccesso di potere essenzialmente da principi giuridici.
Opportunamente, occorre ricordare come negli ultimi anni il confine si sia notevolmente spostato a favore del vizio di violazione di legge attraverso la “codificazione” dei principi la cui violazione comporta annullamento del provvedimento per violazione di legge e non più per eccesso di potere ( es. criteri di economicità, efficacia e pubblicità oggi richiamati espressamente dall’art. 1 della legge 241/90. ).
La giurisprudenza ha sottolineato che la violazione di legge ( intendendosi per legge qualsivoglia disposizione normativa sia comunitaria che interna, di rango superprimario, primario e secondario ) comporta l’annullamento del provvedimento in ragione di un giudizio amministrativo di impugnazione. Ne consegue pertanto che pur in presenza di un vizio qual è quello di cui trattasi, l’efficacia dell’atto permane fino a quando non si realizza il suo annullamento da parte del giudice o ad opera della stessa amministrazione ( in sede giustiziale o di autotela ). Ricorre quindi l’onere per il soggetto leso dal provvedimento così viziato di impugnarlo entro il termine perentorio al fine di far accertare l’illegittimità e di ottenerne l’annullamento, non essendovi alcuna possibilità per il giudice amministrativo di sancirne l’inefficacia, prescindendo dalla sua rituale impugnazione in giudizio ( Consiglio di Stato sez. V°, 10/01/2003 n. 35 ).
Altro vizio che determina tradizionalmente l’annullamento del provvedimento amministrativo è l’incompetenza. Questa può essere definita come una forma qualificata di violazione di legge. Essa ricorre nelle ipotesi in cui l’atto viene emanato da un organo amministrativo diverso da quello che per legge ha la potestà di provvedere. Deve comunque trattarsi di autorità appartenente allo stesso ordine di poteri, allo stesso settore di amministrazione e investita di poteri di analoga natura. Nelle ipotesi in cui l’atto viene invece posto in essere da autorità appartenenti ad altro ordine di poteri rispetto a quelli ai quali viene assegnato dalla legge, il provvedimento non è annullabile ma nullo, in quanto affetto, come detto, da incompetenza assoluta.
Tradizionalmente vengono distinte le seguenti figure:
a) incompetenza per materia: l’autorità, pur possedendo la potestà che è stata esercitata non ha la possibilità di provvedere in quanto singole materie vengono attribuite alla cura di un Ente ovvero di un complesso organizzatorio.
b) incompetenza per valore: ricorre nei casi in cui il funzionario che adotta il provvedimento supera i limiti di importo imposti alla sua qualifica in quanto, specie nell’ambito dei rapporti gerarchici, la competenza per l’emanazione di determinati atti viene riservata alla competenza di un singolo organo.
c) incompetenza per grado: anch’essa tipica dei rapporti gerarchici, discende dalla violazione delle regole che riservano l’adozione di determinati atti ad organi di un certo grado, con adozione dell’atto ad opera dell’autorità inferiore piuttosto che quella superiore o viceversa.
d) incompetenza per territorio: l’atto viene adottato da un’autorità territorialmente non competente, in violazione delle norme che delimitano territorialmente le sfere di competenza.
Alle ipotesi di incompetenza in senso classico, dottrina e giurisprudenza accostano altre due ipotesi date dall’incompatibilità e dall’ irregolare composizione dell’organo collegiale.
Con riferimento alla prima figura ( incompatibilità ) costituisce consolidato indirizzo interpretativo, quello in base al quale le situazioni di conflitto di interesse non sono tassative ma possono essere rinvenute di volta in volta, in relazione alla violazione dei principi di imparzialità e buon andamento sanciti dall’art. 97 Cost. Al fine di evitare che la situazione possa anche soltanto far dubitare che il componente di un organo amministrativo non assume una posizione di assoluta serenità ed imparzialità nel giudizio, occorre che il funzionario si astenga in presenza di siffatte situazioni. In mancanza, si sono avuti significativi arresti giurisprudenziali nei quali, accertata la sussistenza di una situazione di incompatibilità, il provvedimento adottato è stato annullato.
Con riferimento alla figura dell’irregolare composizione degli organi collegiali, in materie di procedura di gara, l’invalidità della commissione giudicatrice si traduce in un radicale difetto di legittimazione ad operare della commissione, con conseguente illegittimità di tutte le operazioni compiute e degli atti adottati dalle stesse.
Passando ora alla trattazione del terzo ( e tradizionalmente più ricco di problematiche ) vizio in ragione del quale può essere disposto l’annullamento del provvedimento amministrativo, si può dire anzitutto che l’eccesso di potere rappresenta il tipico vizio della discrezionalità. Nei casi in cui il provvedimento è vincolato sia per quanto riguarda l’emanazione, sia per il contenuto, non ricorre alcun apprezzamento che può essere effettuato dall’Amministrazione limitandosi la stessa ad applicare la legge.
Un discorso a parte può essere fatto con riferimento agli atti emanati in base ad giudizio di discrezionalità tecnica; in questi casi si ha comunque un sindacato ad opera del giudice amministrativo in ordine alla congruità e ragionevolezza delle valutazioni operate dalla Pubblica Amministrazione.
Per completezza occorre sottolineare che l’eccesso di potere è pur sempre un vizio di legittimità e come tale va nettamente distinto dai “vizi di merito” che attengono al diverso profilo della opportunità, della convenienza e dell’adeguatezza dell’atto. Si ha sempre un confronto obiettivo fra l’atto e il precetto non scritto che presiede alla discrezionalità e si prescinde dalla valutazione circa l’idoneità dell’atto a realizzare l’obiettivo per il quale è stato posto in essere.
Ai tempi della legge Crispi, per eccesso di potere si intendeva lo straripamento di potere, da intendersi quale incompetenza assoluta caratterizzata da particolare gravità. Nel corso del tempo la giurisprudenza del Consiglio di Stato iniziò a riflettere sul concetto di “sviamento” del potere, ovvero l’esercizio dello stesso per finalità diverse da quelle per le quali viene attribuito dalla legge. La dottrina più recente ritiene sussista eccesso di potere quando la facoltà di scelta spettante all’amministrazione non è esercitata correttamente. Esso nasce quindi in violazione di quelle prescrizioni che presiedono allo svolgimento della funzione e non sono identificabili in via generale astratta. Tali regole si sostanziano nel principio di logicità-congruità applicato al caso concreto, tenendo conto degli interessi primari da perseguire, degli interessi secondari coinvolti e della situazione di fatto.
La difficoltà di inquadrare correttamente il concetto di eccesso di potere ha indotto nel corso del tempo la giurisprudenza ad elaborare quelle che comunemente vengono qualificate come “ figure sintomatiche”.
Si possono quindi ricordare:
a) lo sviamento dall’interesse pubblico: ricorre nei casi in cui l’atto sia determinato da un interesse diverso da quello pubblico, che può essere di natura privata riconducibile all’agente ovvero a terzi soggetti;
b) lo sviamento dalla causa tipica: si ha quando l’atto, pur tendendo ad un fine pubblico, persegue un fine ulteriore e diverso rispetto a quello per il quale è stato conferito il potere;
c) contraddizione tra motivazione e dispositivo ovvero tra varie parti della motivazione: ricorre nelle ipotesi in cui manca un nesso logico tra le premesse della motivazione e le conseguenze tratte nel dispositivo ovvero sussiste contraddittorietà tra le parti della motivazione stessa.
d) contraddizione con precedenti manifestazioni di volontà: il provvedimento si pone in contraddizione con precedenti manifestazioni di volontà della stessa amministrazione;
e) travisamento dei fatti, qualora sia assunto a presupposto dell’agire un fatto o una situazione che non esiste nella realtà, ovvero, viceversa, si suppongono inesistenti fatti che invece risultano provati come sussistenti.
f) disparità di trattamento tra situazioni simili ( anche se per alcuni autori si tratta di violazione di legge con riferimento all’art. 3 e 97 della Cost. ) ricorre nelle ipotesi in cui, in presenza di situazioni analoghe, l’Amministrazione adotta provvedimento discriminatori in violazione del principio di eguaglianza.
g) violazioni di circolari, di ordini e di istruzioni di servizio, nonché il mancato rispetto della prassi amministrativa.
A questa sommaria disamina dei vizi di legittimità, in ragione dello stretto collegamento che si ha nell’ambito del diritto amministrativo tra questioni sostanziali e processuali, occorre ricordare alcuni aspetti particolarmente rilevanti in materia di annullamento del provvedimento amministrativo.
L’art. 29 del D. Lgs. 2 luglio 2010 n. 104 ( codice del processo amministrativo ) nel disciplinare l’azione di annullamento prevede il termine di decadenza di 60 giorni.
Decorsi i termini prescritti dall’art. 29 il provvedimento amministrativo diventa inoppugnabile ed eventuali vizi di illegittimità non possono più esser fatti valere innanzi all’Autorità Giudiziaria. Il provvedimento continua a produrre effetti giuridici ed è parte integrante dell’ordinamento giuridico.
La Corte Costituzionale ha sottolineato che questo principio non viola l’art. 24 della Cost. e si pone in linea con l’art. 97 Cost. poiché il principio della certezza delle situazioni giuridiche è funzionale al buon andamento della pubblica amministrazione.
Nelle ipotesi in cui il ricorso sia, al contrario, tempestivamente proposto al Tribunale Amministrativo Regionale, a conclusione del processo, qualora il giudice accolga le richieste del ricorrente, si avrà una sentenza di merito ai sensi dell’art. 34 C.p.a. con conseguente annullamento in tutto o in parte del provvedimento impugnato.
Stefano Bartoloni
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