I difficili confini dell'infermità mentale nel diritto penale: tradizione e giurisprudenza d'avanguardia


Il concetto di infermità mentale è anzitutto legato alle scienze mediche e sociali. La rilevanza che esso assume ai fini della capacità di intendere e volere con conseguente comprensibilità delle condotte assunte e degli effetti dalle stesse prodotte conducono alla necessaria giuridizzazione dello stesso. In particolare, nell’ambito del diritto penale si impone un collegamento fondamentale con il concetto di imputabilità e la conseguente esposizione a responsabilità penale. Il primo riferimento normativo dal quale opportunamente occorre muovere è l’art. 88 c.p. il quale esclude l’imputabilità in “chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e volere”. Si tratta dell’ipotesi di c.d. “vizio totale” di mente e l’infermità di cui il soggetto soffre al momento del fatto è tale da escludere completamente la capacità d’intendere e di volere. 
A questa si affianca l’ipotesi del c.d. “vizio parziale” di mente così come disciplinato dall’art. 89 c.p.Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere e di volere, risponde del reato commesso ma la pena è diminuita.” 
In sede di accertamento giudiziario occorre quindi verificare la presenza di una malattia mentale ed appurare in quale misura la stessa abbia compromesso la capacità di intendere e volere. Siffatta valutazione ha presentato e presenta ancora oggi aspetti particolarmente complessi legati fondamentalmente al concetto di malattia (infermità) mentale. 

Trattandosi, come detto, di concetto che ha il suo prius in una dimensione essenzialmente medica e sociale, esso si espone inevitabilmente alle evoluzioni e alle diverse valutazioni che ne vengono fatte nell’ambiente scientifico. In questo senso è opportuno ricordare le tre teorie fondamentali elaborate nel corso del tempo.

La prima teoria, più antica e più consolidata, utilizza un paradigma strettamente “medico” ( l’infermità ricorre solo in presenza di una patologia con un substrato organico o biologico ). Si tratta del modello più risalente, compiutamente analizzato e sviluppato sul finire dell‘800, ove le infermità mentali vengono considerate tali solo in presenza di una malattia del cervello e del sistema nervoso. Si ha quindi identità tra infermità di mente e ogni altra manifestazione patologica sostanziale, l’elaborazione di specifici modelli di infermità con corrispondente sintomatologia, la qualificazione del disturbo psichico come malattia certa e documentabile. L’infermità ricorre solo se il disturbo che lamenta il prevenuto ha carattere organico e risulta tale da essere inquadrato in una delle classificazioni operate dalla scienza psichiatrica.

Seconda teoria: A tale modello, caratterizzato da un’evidente rigidità, si affiancò agli inizi del 900, per merito degli studi di Freud e dei suoi seguaci, una diversa concezione di infermità, legata alla scoperta dell’inconscio e dei tre livelli della personalità ( Es, Io e Super-io). Nello specifico, si utilizza in luogo del paradigma strettamente “medico” degli anni precedenti, un paradigma “psicologico”. I disturbi mentali rappresentano disarmonie dell’apparato psichico tali da condurre ad una prevalenza della realtà inconscia su quella reale. Ciò che l’individuo si rappresenta nella sua mente è talmente forte che finisce per assumere carattere predominante nei confronti della realtà effettiva. In questo senso il concetto di infermità allarga le maglie comprendendo anche psicopatie, nevrosi e disturbi dell’affettività.

La terza teoria, sviluppatasi intorno agli anni ‘70 del secolo scorso, utilizza essenzialmente un paradigma “sociologico” ( il disturbo psichico ha origine sociale ed è dovuto a relazioni personali inadeguate nell’ambiente di vita o di lavoro). Tale indirizzo si pone essenzialmente in contrasto con i due precedenti poiché nega la natura fisiologica dell’infermità e pone in discussione i principi sui quali si muoveva la psichiatria classica elaborando un concetto di infermità inteso come “malattia sociale”.

Il quadro evolutivo così illustrato si completa con la presenza di una scienza psichiatrica attuale nella quale è possibile individuare una “visione integrata” ove si attribuisce rilevanza a tutte le variabili singolarmente considerate dalle teorie precedenti ( biologiche, psicologiche, sociali ).

Giurisprudenza: In giurisprudenza per anni l’orientamento prevalente ha abbracciato la prima lettura utilizzando il concetto di malattia mentale secondo il modello medico. L’infermità mentale di cui all’art. 88 ricorre solo in presenza di un disturbo psichico che poggia su una base organica e che possiede caratteri patologici così definiti tale da poter essere ricondotto in un preciso quadro nosografico-clinico. Tale impostazione assicura un maggior grado di certezza ed impedisce ai soggetti affetti da disturbi della personalità di allentare ancor più i freni inibitori confidando nell’esclusione della punibilità.
A partire dagli anni ‘70, preso atto del dibattito che, come detto, agitava le scienze mediche e psichiatriche portando all’elaborazione di teorie alternative a quella tradizionale, parte della giurisprudenza ha ritenuto che in taluni casi i disturbi della personalità possono rientrare nel concetto di infermità. Ciò è possibile purchè siano di intensità, gravità e consistenza tali da determinare un assetto psichico incontrollabile ed ingestibile. 

Verosimilmente, tale evoluzione è strettamente collegata a quella che interessa in quel periodo il concetto di colpevolezza ed rapporto tra la stessa e l’imputabilità. 

Nello specifico, alla concezione c.d. “psicologica” della colpevolezza ove ci si muove nell’ottica di una relazione tra fatto e autore, si sostituisce la concezione c.d. “normativa” ove la colpevolezza si sostanzia nella rimproverabilità  del soggetto in ragione dell’atteggiamento psicologico tenuto dallo stesso. In questo diverso quadro di riferimento anche l’imputabilità assume una diversa funzione. L’imputabilità, infatti, presuppone ai sensi dell’art. 85 c.p. la “capacità di intendere e volere “ al momento del compimento del fatto. Tradizionalmente per capacità d’intendere si richiede l’attitudine del soggetto ad orientarsi nel mondo esterno avendo una percezione esatta dello stesso, comprendendo il significato delle proprie azioni ed i riflessi che le stesse producono nei confronti dei terzi. Con l’espressione “capacità di volere” si intende generalmente la capacità del soggetto di dominare i propri istinti e le proprie pulsioni agendo sulla base di scelte ragionevoli legate al proprio bagaglio di valori e di conoscenze. 
L’imputabilità così intesa costituisce, quindi, il primo aspetto fondamentale che occorre valutare nel momento in cui, nell’ottica c.d. “normativa” viene mosso un rimprovero al soggetto per il fatto tipico e antigiuridico dallo stesso posto in essere. L’assenza di imputabilità e quindi della capacità di intendere e volere nel soggetto che pone in essere la condotta esclude a priori la possibilità di muovere un rimprovero allo stesso. Inoltre, alcuni Autori aggiungono un ulteriore aspetto particolarmente significativo. Se è vero infatti che la minaccia della sanzione deve avere una finalità general-preventiva distogliendo in tal modo i consociati dal commettere i reati, i destinatari devono essere psicologicamente in condizione di comprendere il significato della minaccia. Inoltre, sotto il profilo special-preventivo, a nulla varrebbe l’irrogazione della pena nei confronti di un soggetto che del pari non è in condizione di comprendere il valore e la funzione rieducativa della stessa. 

In questa mutata prospettiva sia del concetto di colpevolezza che del concetto di imputabilità si comprende bene quindi anche l’apertura della giurisprudenza verso le nuove teorie in materia di infermità mentale. Qualora il soggetto sia in condizioni di mente tali che ( quand’anche non qualificabili come malattia mentale nell’ottica tradizionale ) escludano la possibilità di comprendere il significato delle proprie azioni, viene meno la possibilità di muovere un rimprovero nell’ottica “normativa” con conseguente esclusione della colpevolezza. Nel fare ciò la giurisprudenza è comunque attenta a non allargare eccessivamente le maglie del non punibile. Si richiede quindi, come detto, una particolare gravità ed intensità nel disturbo della personalità. Si escludono i semplici stati emotivi e passionali, sia per l’espressa previsione normativa ( art. 90 c.p. ), sia per l’assenza, di regola, di quei caratteri. Inoltre, in quest’ottica, si richiede altresì l’esistenza di un nesso eziologico tra il disturbo mentale ed il fatto di reato, in modo tale che lo stesso sia conseguenza del primo. Si consente in questo modo al giudice di accertare se effettivamente il fatto posto in essere dal soggetto sia ascrivibile nella sua genesi e nella sua realizzazione al disturbo mentale.

Stefano Bartoloni



0 commenti:

Posta un commento